Photo by Antón Castro
6 Maggio 2018
Il giornalista e direttore della rivista Letras ha scritto un saggio breve e incisivo sul «procés» e sull’indipendentismo catalano
Il «procés» catalano ha rappresentato la maggiore sfida alla democrazia spagnola contemporanea. Ma oltre a essere un fenomeno locale, ha fatto parte di un movimento globale che mette in dubbio l’ordine liberale, fa un uso abbondante della propaganda e della post-verità e ha trasformato la politica in un grande “selfie”. Ce lo spiega Daniel Gascón (Zaragoza, 1981) ne «El golpe posmoderno» (Debate), un saggio breve e incisivo sull’indipendentismo catalano -Gascón è un grande ammiratore di George Orwell e di Christopher Hitchens, e si nota- sotto forma di quindici lezioni da cui i democratici hanno da imparare.
DOMANDA Perché quello che è successo in Catalogna tra settembre e ottobre 2017 è un golpe postmoderno, come sostiene il tuo libro?
RISPOSTA Si è verificato ciò che Hans Kelsen, il grande giurista classico, definisce un colpo di stato, il salto da una legalità all’altra. Ma non ci sono stati altri elementi che solitamente contraddistinguono i colpi di stato, come la violenza più o meno esplicita. Credo sia postmoderno anche per un’ambiguità che abbiamo visto nel suo svolgimento: era contemporaneamente reale e falso. Se avesse funzionato, sarebbe stato inarrestabile. Se non funziona, è negabile. È quello che abbiamo visto: come il mondo della post-modernità, proprio come nel mondo barocco, ha un non so ché di trompe l’oeil.
Ma tu credi che sia un golpe.
Sì, è un golpe con caratteristiche particolari come, ad esempio, l’uso delle strutture dello Stato contro lo Stato. O che gli indipendentisti no abbiano avuto bisogno di prendere possesso dei mezzi di comunicazione perché erano già di loro proprietà. È stato inoltre un golpe al ralenti. Come si oltrepassa una linea rossa in modo che non ti possano fermare? Oltrepassandola molto lentamente. E così è stato.
Il libro è percorso da una perplessità: la prosperità della Spagna e il relativo buon funzionamento delle sue istituzioni, anche dopo della crisi, ci avevano fatto pensare che non avremmo più vissuto nulla di simile.
Ci sorprende abbastanza che persone appartenenti a un paese prospero, con sufficiente libertà e autonomia, finiscano per fare questa specie di grande difesa democratica, dimenticando di avere contro la metà della popolazione. Ma questa stessa prosperità è stata determinante affinché, non nell’epilogo ma nel momento in cui ci troviamo adesso, non siano successe cose peggiori. Ha permesso che la gente si impegnasse in maniera un poco frivola, ma anche che la situazione no andasse fuori controllo.
Abbiamo inoltre la manipolazione del linguaggio da parte del nazionalismo catalano, l’utilizzo di termini dell’antifranchismo come parodia postmoderna: i prigionieri politici, gli esiliati, la repressione…
Questa è stata una delle cose più interessanti e decisive. L’indipendentismo è stato molto abile a introdurre espressioni spesso usate persino dai non indipendentisti, ricorrendo in modo mitologico al linguaggio e alle associazioni con il passato della Spagna. È stato un linguaggio iper-inflazionato, sempre pieno di superlativi: prigionieri politici, genocidi culturali… Le discussioni su internet l’hanno fomentato: siccome ci troviamo adesso nell’economia dell’attenzione, è necessario gridare molto per farsi ascoltare. E non sono stati gli indipendentisti gli unici ad aver esagerato, anche se lo hanno fatto in modo constante. Per esempio, con i parallelismi: hanno iniziato col dire che la Catalogna era come la Scozia, poi come il Québec, e adesso sembra sia come il Kossovo. Finisce per essere un po’ ridicolo.
La Catalogna è stato il primo laboratorio del populismo della post-verità. Con il vantaggio di poter contare sulla propria rete televisiva
Nel libro metti l’indipendentismo catalano nel contesto di una crisi dell’ordine liberale. È la risposta a una crisi non tanto diversa dal Brexit, dall’elezione di Trump o dalla propaganda russa.
Gabriel Colomé raccontava l’altro giorno in un’intervista che la Catalogna è stata il primo laboratorio del populismo della post-verità. Con il vantaggio di non dover neppure ricorrere a Russia Today, il braccio di propaganda internazionale russo, perché poteva contare sulla sua rete televisiva. Il populismo non ha funzionato in Spagna a livello nazionale e perfino Podemos ha cominciato a cambiare il proprio discorso. Ma lo ha fatto nella strategia indipendentista, sicuramente appoggiata dal processo di costruzione nazionale portato avanti da Jordi Pujol negli anni novanta. È riuscito a creare una sensazione di volontà di unanimità, di un nemico esterno che non è neppure la Spagna, ma un’entità astratta chiamata Stato spagnolo.
Tuttavia questa strategia basata sulla post-verità ha mostrato anche i suoi limiti: puoi trascinare in strada a manifestare due milioni di persone, puoi far credere loro che l’indipendenza per la Catalogna sia possibile, ma di sicuro non puoi andare oltre il simbolismo.
È proprio questa l’idea del libro. Per questo è un colpo di stato postmoderno. Gli indipendentisti dicono: se facciamo una specie di rivolta di design, postmoderna, uno Stato moderno non avrà strumenti per difendersi. Dimostrerà di essere molto brutale, ci reprimerà con violenza e l’opinione pubblica internazionale non lo tollererà. Ma abbiamo visto che lo Stato moderno ha più strumenti di quelli che credevamo e che la realtà è molto testarda: l’economia ne risente, e in più ci troviamo nell’ordine liberale, in cui il rispetto alla legalità è fondamentale, perché è costituito da paesi che si basano sulle leggi.
Il calcolo dell’indipendentismo è stato chiaramente sbagliato.
Nel suo libro “Cataluña ante España”, Xavier Vidal-Folch spiega che l’unilateralità illegale dell’indipendentismo catalano ha fatto sì che in Europa molti nazionalisti che avrebbero potuto simpatizzare con le sue rivendicazioni frenassero il loro appoggio, e questo li ha isolati. Questi altri nazionalismi stanno negoziando con i rispettivi governi, ma non pretendono di violare la legalità. L’errore maggiore è sempre credere nella tua stessa propaganda, come è successo a una parte degli indipendentisti. Questo risale a una vecchia convinzione del nazionalismo catalano, che si trovava già in Prat de la Riba: l’idea che la Spagna sia uno stato ma non una nazione, e uno stato impossibile da difendere, perché non piace neppure agli spagnoli. Dopo quello che è successo vediamo non solo che lo Stato si difende, ma che in più piace a molti catalani. Uno Stato è molte cose: una compagnia di assicurazioni, il sistema di solidarietà tra classi e generazioni, ma anche una macchina repressiva. E gli indipendentisti lo sapevano, per questo volevano creare il loro. Ma è normale essere vinto da uno Stato più forte di quello che tu ti volevi creare.
Uno Stato è molte cose: una compagnia di assicurazioni, il sistema di solidarietà tra classi, ma anche una macchina repressiva
Tutto questo rivestito da ciò che tu definisci il “kitsch” del procés. Non è che non esista un “kitsch” spagnolo, o spagnolista, ma l’indipendentista catalano lo ha mostrato in modo evidente, con manifestazioni e simboli che erano messe in scena di ciò che percepiva come le sue stesse virtù.
Lì uso il concetto dello scrittore Milan Kundera, che ha scritto molto sul kitsch. Il concetto che ti emozioni contemplando la tua stessa bellezza morale. È qualcosa che durante il procés abbiamo visto molto, ad esempio in quelle performances nelle piazze dei paesini in cui la gente entrava per alcune ore in carceri fittizie in commemorazione dei cosiddetti prigionieri politici. Anche se in Catalogna si è verificato con maggiore forza, credo sia un fenomeno contemporaneo, un certo emotivismo generale che se alzassimo la testa vedremmo probabilmente che è una corrente maggiore. Anche in questo l’indipendentismo catalano è stato un precursore. In molte proteste collettive, e nel comportamento di molta gente sui social, questo narcisismo morale è visibile. Le sue manifestazioni erano come un grande “selfie”.
La finestra di opportunità per una grande rottura che si è aperta con la crisi finanziaria si sta chiudendo o si è chiusa del tutto. Non solo per l’indipendentismo, ma anche per una certa sinistra che si è alleata con l’indipendentismo, in modo esplicito o implicito, per fare fuori il cosiddetto regime del 1978.
L’alleanza si verifica in un momento in cui si considera che il progetto Spagna si sia esaurito. Come racconta Fernando Vallespín, nella rottura tutti potevano proiettare la loro utopia specifica: pensare che la tua repubblica sarà femminista, più solidale… Poi la sorpresa per l’alleanza della sinistra con l’indipendentismo è assurda, perché è stata una caratteristica costante, sia in Spagna sia fuori. Ma non era solo un mostro dalle due teste: c’era il partito anticapitalista in appoggio al più business-friendly, gli atei con i più cattolici. Una società civile completamente cooptata. Non sappiamo quanto tempo ci metteranno per arrivare a riconoscere la realtà, in che misura gli indipendentisti potranno continuare ad aggrapparsi ai processi, ai fantomatici esili e ai cosiddetti prigionieri politici per negare l’evidenza. Con un certo ottimismo, io credo che questa situazione cambierà e che molta gente si stancherà rendendosi conto dell’impossibilità dell’indipendenza.