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Originale: «¿Qué liderazgo para Cataluña?». Juan Claudio De Ramón. El País.
1 giugno 2018
Non è forse un progetto migliore per la Spagna essere una nazione europeista e plurilingue, civica e inclusiva, piuttosto che essere un arretrato Stato plurinazionale, composto da uniformità etnolinguistiche giustapposte che non vano d’accordo?
La letteratura sociologica distingue tra un tipo di leadership transazionale e un altro di natura trasformazionale. Il leader transazionale gestisce una routine organizzativa che non mette in discussione: il suo obiettivo è che nessuno violi le regole stabilite; quando ciò accade e la regola è sospesa o contestata, cercherà di ripristinare il precedente equilibrio, negoziando -stringendo accordi- con i vari attori in gioco, attraverso un sistema di punizioni e ricompense: la vecchia e comprovata tattica del bastone e della carota. Di fronte a una crisi, il leader transazionale non cerca di cambiare nulla; ciò che vuole è che le cose funzionino di nuovo secondo lo schema conosciuto.
Molto diverso è l’atteggiamento del leader trasformazionale: di fronte a un cataclisma, capisce che l’equilibrio perduto è irrecuperabile, forse dannoso, e che la crisi offre la possibilità di raggiungere un nuovo e migliore stato delle cose. Per farlo, invece di fare appello alle singole emozioni di paura o l’avidità, propone alla società o alla ??dita?? tentennante un ideale scintillante, forse difficile, che permetta di raddrizzare la nave dandogli un nuovo nord. Il leader trasformazionale – spiega il teorico Joseph Nye (Le qualità del leader) – induce i suoi seguaci a trascendere il loro immediato interesse personale in favore di uno scopo più elevato. Risolve i problemi attraverso il superamento, scartando le disposizioni transitorie. Compito che richiede coraggio e assumere rischi: a volte per entrare in guerra (come fece Lincoln negli Stati Uniti, per salvaguardare l’Unione), a volte per uscirne (come ha fatto De Gaulle in Algeria).
Non è scritto da nessuna parte che tutte le crisi richiedano lo stesso tipo di leader. Entrambi hanno vantaggi e svantaggi. La virtù propria del leader transazionale è la prudenza; quella del leader trasformazionale, l’entusiasmo. Il difetto tendenziale del primo è l’abbattimento; quello del secondo, il messianismo. A volte, comunque, è la tranquilla transazione ciò che è conveniente. Ma in altre occasioni, uno scoglio incistato è solo guadato grazie alla trasformazione energetica. I leader transazionali sono, in una certa misura, permutabili: basta conoscere la ricetta per applicarla. I leader trasformazionali influenzano con le loro azioni nel corso degli eventi e collegano la loro sorte al loro carisma personale.
Questa dicotomia non viene forse come uno stampo alla domanda catalana? Un equilibrio duraturo -per il quale lo Stato centrale ha acquistato l’ambigua fedeltà dei nazionalismi substatali concedendo loro crescenti quote di potere – si è rotto in pezzi. Ho cercato di dare a questo equilibrio, in vigore dal periodo della Transizione, il nome di paradigma Ortega-Cambó, che da Ortega prende l’idea disfattista che il problema catalano non ha soluzione (solo si può supportare) e da Cambó la tesi, condivisa fino ad ora dalle élite della capitale, che è conveniente che la Catalogna sia governata dal catalanismo sotto parametri nazionalisti. Ma il tradimento di uno degli attori, precipitato nel colpo di stato dello scorso ottobre [in Catalogna, aggiungerei], smantella questa dottrina. Da allora, i vecchi attori, disorientati, nuotano per cercare di raggiungere le calme acque del passato. Bisogna fare politica, dicono. Il che significa che bisogna fare la stessa politica di sempre: raggiungere una transizione con il primo leader nazionalista catalano che allenti il pistone, concederle una quota di potere aggiuntiva – «qualcosa bisognerà dare loro,» si ripete sottovoce, sia lo scudo delle competenze chiamate identitarie o il concerto economico- e lasciare il problema sistemato per –si aggiunge con malinconica alzata di spalle- i «prossimi venti anni».
Considero questo modo di pensare sbagliato. Suscita diversi errori concettuali. Il primo, quello di rimproverare al Governo un’immobilità che non è tale, ma piuttosto sconcerto di fronte al esaurimento della formula transazionale e alla difficoltà di concepire politiche alternative al patto con le élite nazionaliste. Lo stesso è la mancanza di immaginazione che danneggia la strategia del PSOE-PSC [questi ultimi, i socialisti catalani]: propongono delle cose, sì, ma le stesse di sempre: la sistemazione in famiglia per la quale lo Stato cede un po’ di potere che ancora tiene in cambio che l’indipendentismo rinvii i suoi piani. Non si vuole capire che quello è un mondo – quello di comportare, quello delle transazioni senza composizione – che, come le rondini di Bécquer, non tornerà. Non solo perché il “procés” (processo indipendentista) abbia attivato politicamente una vasta porzione di elettori che penalizzeranno qualsiasi cessione ai nazionalisti. Soprattutto, perché, come sostengono i commentatori meno pigri, il conflitto non è tra la Catalogna e lo Stato, ma tra i catalani. Ed essendo questo il problema –quello di due comunità in conflitto-, la soluzione passa attraverso una nuova ridistribuzione del potere interno tra le due -power-sharing-, e non nella blindatura degli strumenti con cui la metà sovranista ha costruito la sua egemonia. Ciò che ha bisogno la parte costituzionalista è essere meglio rappresentata in Catalogna, e questo punta a cambiamenti nelle politiche educative e culturali regionali in diversa direzione al tipo di cose che i nazionalisti chiedono e lo Stato può essere tentato di offrire.
Ciò significa che dobbiamo accontentarci di ciò che c’è, dello status quo, indipendentemente dell’inevitabile depurazione giudiziaria di ciò che è accaduto? No. Se non c’è transazione, potrebbe esserci trasformazione. L’ideale di una Spagna più equa, più inclusiva, proposto non solo ai catalani, ma a tutti gli spagnoli, e quello di uno Stato riformato attraverso non il dialogo di nascosto con le élite nazionaliste, ma la deliberazione pubblica tra cittadini. Non è forse una migliore idea, invece di procedere a blocchi di politiche linguistiche esclusive, fare una vera e propria gestione linguistica federale, inclusiva ed equa, attraverso una legge di lingue ufficiali? Non è un migliore progetto per la Spagna, più stimolante, più d’avanguardia, quello di essere una nazione europeista e multilingue (conforme crescano i contributi demografici dall’estero, anche sempre multiculturali), civile ed esemplarmente inclusiva -come già avviene, per esempio, per quanto riguarda la diversità sessuale-, che quella di essere un arretrato Stato plurinazionale, composto da giustapposte uniformità etnolinguistiche, che non vano d’accordo e che si guardano l’ombelico? Una Spagna che non risolva il problema catalano, ma lo trascini. La leadership transazionale che viene richiesta senza alcuna illusione sarà come inchiodare una nuova suola a una vecchia scarpa. La leadership trasformazionale che è necessaria sarà quella di comprare un nuovo paio di scarpe, e non per «i prossimi venti anni», ma per affrontare con ottimismo un orizzonte senza data di scadenza.