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Originale: “Agravio inventado y herida luminosa”. Ignacio Vidal-Folch. Crónica global.
26.06.2018
Nel corso degli anni, i chierici e i poeti del nazionalismo hanno paragonato la società catalana a ogni sorta di cose strane: una colonia oppressa; Rosa Parks e la sua sfida al razzismo statunitense; Nelson Mandela contro l’apartheid; Ulisse, in viaggio verso Itaca; Gandhi contro l’impero britannico; Israele, circondato da paesi arabi; il Kosovo maltrattato dalla Serbia; i rifugiati siriani “perché anche noi sappiamo cosa vuol dire essere perseguitati”. I poetastri della borghesia fiorente hanno parlato di “depredazione”, intolleranza secolare, “invisibilità”, “genocidio culturale”.
Eventi inverosimili che causavano imbarazzo, particolarmente agli occhi degli stranieri in visita da noi. Perché la prosperità e la libertà della nostra privilegiata regione sono fin troppo evidenti, ben visibili in città, campagna, infrastrutture, costumi, istituzioni e spesa pubblica, e smentiscono i paragoni indecenti con popoli che davvero subiscono terribili ingiustizie a cui si vorrebbe sottrarre la condizione di vittima, per indossarla come fosse una maglietta gialla. Certo bisogna avere pochissima vergogna o essere molto ma molto ignoranti per sostenere che la Catalogna sia un paese occupato, maltrattato, umiliato o non riconosciuto.
Essendo i torti inesistenti, il kitsch del linguaggio nazionalista ha cercato, servendosi delle stridenti analogie indicate in apertura, di creare questa ferita primigenia che possa giustificare tutti i movimenti antisolidali e sleali come risposta legittima di un popolo oppresso all’aggressione di cui è stata oggetto: aggressione alla sua dignità, alla sua economia o alla sua sacrosanta lingua.
Ed ecco il ricorrere alla «sentenza dello Statuto di autonomia»; Statuto e sentenza che non importavano nulla a nessuno fino a che i chierici del nazionalismo non hanno iniziato a gridare al cielo per presentarli come banco di prova o big bang della disaffezione o come ultima replica del peccato originale che da tempo immemore l’intollerante Spagna commette contro la povera Catalogna.
L’appello alla «sentenza dello Statuto» è stato molto utile in questi anni per attribuire alla destra nazionale, soprattutto al Partido Popular, la responsabilità di tutte le montature, reati, bluff e bravate che il Movimento Nazionalista si è permesso di portare avanti; utile anche perché la sinistra regionale, soprattutto il PSC, potesse unirsi al coro delle vergini offese e farsi perdonare la sua natura ibrida e la provenienza impura di molti dei suoi elettori: questa gente inumana e destrutturata che tanto disgusta all’intellettuale di razza —questo «grande intellettuale di statura indiscutibile» secondo TV3— che è l’attuale presidente della Generalitat, il «Le Pen spagnolo», come lo ha definito Pedro Sánchez.
(È strano, va comunque detto, quanto sia difficile per la cupola del PSC capire cosa succede. Domenica scorsa, il senatore José Montilla, lo stesso che nel 2010 stava in prima fina in una manifestazione contro la “sentenza dello Statuto” da cui ha dovuto darsela a gambe per non farsi linciare, lo stesso che è uscito dal Senato per non appoggiare l’applicazione dell’articolo 155, è uscito dalla sua ostinata inesistenza per concedere un’intervista a questo giornale in cui desiderava ancora fare un accordo con ERC, come ai bei tempi del suo tripartito incantato, e incolpava il PP del colpo di stato nazionalista).
Con la tappa del prusés culminata con l’insurrezione del Parlament dell’ottobre 2017, disarticolata con l’arresto di alcuni capibanda, la fuga di altri e la sospensione dell’autonomia, “la sentenza dello Statuto” è rimasta ammortizzata, visto che il nuovo Governo ha già annunciato la sua disposizione ad annullarla in un modo o nell’altro.
La mozione di sfiducia concordata da nazionalisti e socialisti contro Mariano Rajoy, che stringendo i denti e con visibile riluttanza e imbarazzo aveva disciolto la trama politica del golpe (non così la trama civile che è ancora attiva), apre una nuova tappa nella fabbrica delle false ingiustizie.
In attesa delle concessioni già annunciate dal nuovo Governo, la ferita narcisistica da invocare non è più la sentenza dello Statuto ma l’azione della polizia il giorno del referendum illegale e il discorso del Re trasmesso in TV (discorso da noi tanto lodato perché ci ha ricordato quello pronunciato da suo padre nel 1981 per salvare la democrazia e lo Stato di diritto. Dopo il discorso del Re, la Catalogna ha tirato un grande sospiro di sollievo e si è arrestata la fuga di capitali).
Per «allargare le basi» del separatismo, la cosa migliore, certo, sarebbe stata un morto, perché il sangue versato è il miglior rinvigorente del vittimista passivo-aggressivo. Come riconosce l’ex-segretario della Comunicazione Josep Martí Blanch nel suo libro Com vam guanyar el procés i vam perdre la República, «sapevamo che il 1 di ottobre ci sarebbero state cariche della polizia, e in alcuni ambienti separatisti non solo lo davano per scontato ma ci speravano». Certo che lo sapevamo, avevamo rilevato nei discorsi e tra le linee dei loro editorialisti di riferimento il desiderio di violenza e l’auspicio che in uno dei tafferugli morisse qualche poveraccio per elevarlo alla condizione di martire. Un morto aiuta sempre a trasformare un processo farlocco in una tragedia vera e rispettabile.
Senza i feriti e i morti che i golpisti tanto segretamente e vergognosamente desideravano, le manganellate alla «brava gente» che hanno mandato nelle scuole a fare resistenza passiva, e quel discorso sobrio e magnificamente articolato, saranno, a partire da ora, le nuove ingiustizie inventate, la ferita lucente autoinflitta in cui affondare il dito senza sosta per non farla rimarginare.
Si consiglia di armarsi di pazienza, fare incetta di paracetamolo, mantenere un atteggiamento zen, leggere bei libri.