Originale: «El referéndum no es la solución». Paul Marí-Klose e Ignacio Molina. El País.
La Catalogna non è un solo popolo e in realtà l’unica soluzione sono delle formule sensate per riuscire a stare insieme che faticosamente si riescano a costruire, con grandi dosi di dialogo e generosità e con sistemi di potere condiviso.
La Catalogna è impantanata da anni nel denominato “procés”; una scommessa politica sconcertante, che la spinge verso il rischio di una frattura, allo stallo politico e alla mancanza di azione in altri ambiti, meno “epici”, però in realtà fondamentali per il benessere immediato dei suoi cittadini. In questo contesto così scomodo è comprensibile che rinasca il desiderio di srotolare la matassa di una forma veloce e partecipativa mediante un referendum vincolante sull’indipendenza.
Non c’è da stupirsi che i nazionalisti lo reclamino, visto che, nonostante assicurino di aver “voltato pagina” e di avere la legittimità per la “sconnessione”, il loro grande obiettivo strategico continua ad essere un referendum alla scozzese. Significherebbe compiere la metà del loro programma di massima (vedersi riconosciuti come una comunità politica a sé stante). Ed anche se trionfasse il “no”, il precedente permetterebbe ripetere il referendum al momento opportuno per completare l’altra metà del programma (una secessione legale, accettata internazionalmente). In cambio, risulta più intrigante che questa soluzione sia difesa anche da un importante settore della sinistra non nazionalista in Catalogna e in tutta la Spagna, utilizzando argomenti sia democratici (vogliamo votare) che pragmatici (conviene votare). Noi non siamo d’accordo con nessuno dei due.
In primo luogo, è effettivamente possibile dubitare del supposto clamore per il “diritto a decidere”. Si continua a ripetere che l’80% dei catalani vorrebbe essere consultato rispetto al suo futuro. In realtà, questa evidenza demoscopica dipende dal carattere semplicistico che suppone chiedere qualcosa del tipo “Lei preferisce essere preso in considerazione o essere ignorato?”. Di fatto, quando i sondaggi sono più sofisticati e le possibili risposte includono opzioni come il dialogo fra i governi, le posizioni si fanno più precise. Successe, per esempio, con il barometro di GESOP (febbraio del 2014), nel quale solo il 49% preferiva il referendum come soluzione; è una cifra appena superiore, ma non molto lontano, da quelli che preferiscono la indipendenza.
Però, al margine del dibattito sul sostegno sociale reale del referendum, conviene fermarsi a pensare alle due ragioni pratiche che difendono quelli che appoggiano questa soluzione, anche se non sono indipendentisti. 1) servirebbe per chiarire finalmente la volontà dei catalani e 2) il semplice fatto di realizzarlo calmerebbe l’ansia secessionista, contribuendo così alla sua sconfitta.
In questo ragionamento ci si dimentica dello scontro di legittimità fra la volontà dei cittadini catalani (in realtà, solo di una parte significativa di loro) e il quadro costituzionale vigente, per non parlare della contraddizione con la volontà del popolo spagnolo, che in principio è il demos sul quale si basa la nostra democrazia, e la cui immensa maggioranza – qui sì- non ha alcun interesse in vedere il suo paese messo in discussione e neanche di dover affrontare le conseguenze sociali, politiche ed economiche della sua scomposizione.
Ma non soffermiamoci su questo dettaglio, che i difensori del referendum considerano irrilevante. Diamo por buono che questi effetti negativi sulla Spagna –che si produrrebbero anche se la secessione fosse respinta- non debbano essere un motivo di preoccupazione per i catalani. Diamo por buono che solo loro costituiscono il soggetto sovrano che può “autodeterminarsi”. Anche in questo caso, la soluzione per la Catalogna non sarebbe un referendum che chiede se si vuole o no la separazione. Una formula di questo tipo, con domanda binaria, apparentemente avrebbe il vantaggio di un risultato chiaro. Ma ha quattro grandi inconvenienti democratici.
Il primo è che non si lascerebbe esprimere la scelta di una parte importante di cittadini catalani, probabilmente la più abbondante, che rifiuta lo status quo, ma non vuole la secessione, bensì un nuovo patto per rinnovare e migliorare l’autogoverno. Proprio questo è stato l’errore del precedente della Scozia, dove la scelta maggioritaria (più devolution) non potette essere votata, perché Cameron voleva evitare una fastidiosa trattativa sulle competenze, obbligando così gli scozzesi a scegliere in modo drammatico fra il “dentro” o il “fuori”.
Il secondo inconveniente è che la chiarezza è impossibile in situazione di pareggio potenziale; e qui è utile il precedente del Quebec, dove da decenni discutono stancamente su quello che significa “una maggioranza chiara”. I contorsionismi che si stanno producendo in Catalogna per considerare sufficienti i poveri risultati del 27-S fanno capire che in questo caso i litigi sarebbero anche più grandi. E nessuna formula, sia con due sia con più opzioni, produrrebbe un risultato incontrovertibile. ¿Come gestiremmo, per esempio, che il 48% scelga l’indipendenza, il 24% il federalismo e il 28% lo status quo delle autonomie?
Tutto questo porta al terzo “però”: un risultato che rifiutasse solo di poco l’opzione secessionista difficilmente riuscirebbe a disattivarla (non ci riuscì in Queben né in Scozia). Al contrario, condannerebbe a nuove votazioni (il “neverendum), sotto la pressione nazionalista e i calcoli strategici perché il centro presenti offerte seducenti che migliorino il potere del territorio.
Comunque, secondo noi, l’inconveniente più problematico è il quarto: la Catalogna è attraversata da una frattura sociale e politica che difficilmente potrebbe ricucirsi dopo una deliberazione democratica, perchè riflette identificazioni primordiali. Quando la popolazione è divisa in due metà con forti identità culturali, il risultato di un referendum riuscirebbe solo a catturare stati di animo contingenti di un piccolo gruppo di indecisi il cui voto è suscettibile di oscillare.
La Catalogna non è un “solo popolo”. I difensori del referendum hanno costruito un’immagine mitizzata del processo della Scozia, che non soffre di una divisione identitaria, ma hanno omesso molti altri casi (come il Belgio, l’Ulster o Cipro) dove solamente le posizioni più settarie considerano che votare per una rottura può funzionare come meccanismo legittimo ed efficace per gestire il conflitto. Quando esistono problemi territoriali con una matrice identitaria, un referendum, invece di risolvere la frattura sociale, dividerebbe ancora di più.
Non difendiamo uno Stato-gabbia, che intrappola una maggioranza chiara e persistente di cittadini che ne vogliono uscire. Perché, se la rottura fosse irreversibile e non identitaria, una democrazia avanzata come la spagnola dovrebbe prendere in considerazione il fatto di accettare la secessione. Ma questa maggioranza non c`è e non arriverà. Per questo la soluzione non è un referendum. In realtà l’unica soluzione sono delle formule sensate per riuscire a stare insieme che faticosamente si riescano a costruire, con grandi dosi di dialogo e generosità e con sistemi di potere condiviso. Ovviamente, i patti che firmino – la riforma federalista o una sistemazione più soddisfacente delle minoranze di ogni lato- potrebbero successivamente essere ratificati dalla cittadinanza. Ma questa non sarebbe una votazione che divide.
Pau Marí-Klose è professore di Sociologia presso l’Università di Zaragoza. Ignacio Molina è professore di Scienze Politiche presso l’Università Autonoma di Madrid.