Photo by Anthony Da Cruz on Unsplash
Originale: “La democracia derrotó al golpe”. José Ignacio Torreblanca. El Mundo.
7 Novembre 2018
Poco più di un anno fa il tentativo di abrogare la Costituzione passando sopra il Parlamento della Catalogna, calpestando i diritti dei rappresentanti della maggioranza dei catalani e ignorando la volontà di tutti gli spagnoli di vivere insieme in pace e libertà, fu sconfitto. Fu, senza dubbio, il momento più delicato per il quale la democrazia spagnola è transitata dal colpo di Stato del 1981.
Ciò non è stato, come alcuni sostengono ancora oggi, un tentativo pacifico e democratico di consultare la cittadinanza catalana sul suo futuro, ma un referendum di autodeterminazione illegale. Un referendum basato su una legge express approvata in sfida con la Corte Costituzionale e che non contava né con i rapporti obbligatori del “Consell de Garanties Estatutaries” né con la partecipazione dell’opposizione. Una legge che, travestita da innocua festa civica, condusse alla proclamazione dell’indipendenza della Catalogna entro 48 ore dopo un voto detenuti senza garanzie e senza requisiti di partecipazione per poter considerare il risultato valido e vincolante. Una legge con cui il Parlamento catalano, senza passare per l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il Consiglio di Sicurezza o la Corte Internazionale di Giustizia, si è concesso a se stesso il diritto all’autodeterminazione. Una legge che si postulava a se stessa come non derogabile e «gerarchicamente superiore a tutte le altre» e, quindi, si è posizionata al di sopra della Costituzione spagnola e dello Statuto di Autonomia della Catalogna.
Sorprende il consumo di ore dedicate ancora oggi a se quello accaduto fu un colpo di stato o no, o se ci fu una ribellione con o senza violenza. È una discussione nominalistica e traditrice che mira a generare un rumore che maschera e diluisce la gravità di ciò che è accaduto. È evidente che il movimento indipendentista ha cercato di colpire la democrazia, la Costituzione e la convivenza. Che lo abbia fatto dalle istituzioni di autogoverno usando il Governo catalano, il Parlamento catalano, la Pubblica Amministrazione, i Mossos d’Esquadra e i centri educativi, e che intendesse legalizzare il suo colpo con una (in realtà due) leggi, distinguono Puigdemont e Junqueras da Tejero nei metodi, ma non negli scopi (tentare contro la Costituzione).
Il colpo di Stato parlamentare (o autogolpe senza violenza) non è una novità. Ci sono state molte democrazie che si sono abrogate a sé stesse usando maggioranze parlamentari o plebisciti popolari. Dall’Assemblea Costituente del Venezuela, che con la sua semplice esistenza perpetra ogni giorno un colpo di Stato contro la stessa Costituzione boliviana, fino alla scomparsa della Repubblica di Weimar, che non richiese che Hitler entrasse nel Reichstag con una pistola in mano, ma riuscì che esso concesse tutti i poteri dello stato al Fuehrer. Guardiamo dunque, la sostanza, che è il tentativo di abrogare la Costituzione e lo Statuto di Autonomia, e non la tecnica per eseguire il colpo di stato.
È certo che Carl Schmitt, il teorico degli stati di emergenza, non avrebbe esitato a riconoscere un colpo così perfetto come quello progettato dai separatisti catalani. Ed è certo che qualsiasi democratico in qualsiasi parte del mondo avrebbe notato l’aberrazione che rappresentava commettere un tale tentativo contro una democrazia proprio nel suo nome. Nonostante gli auto-elogi sul 1 ottobre come un apice del percorso democratico catalano verso la repubblica, nessun democratico può parlare di «risultati» né di «referendum» di un processo che perfino gli osservatori internazionali invitati dalla Generalitat hanno certificato mancava di alcuna possibilità di verifica della sua integrità. Ma anche salvando l’inesistenza di una commissione elettorale indipendente o di un censimento valido, ogni democratico sa che quando in una consultazione non compare la metà del censimento e la metà che compare vota in modo schiacciante a favore dell’opzione sostenuta dal governo, si tratta di una votazione che non conta con il sufficiente consenso o legittimità.
Nella questione catalana resta ancora molto da fare. Le ferite lasciate dalla profonda divisione seminata nella nostra società richiederanno ancora molto tempo per guarire. Tuttavia, sono convinto che la crisi catalana abbia portato i cittadini a rafforzare, non indebolire, il loro apprezzamento per la democrazia, la Costituzione e lo Stato di diritto. Con l’eccezione di Podemos e dei nazionalisti, la maggior parte dei politici ha saputo vederlo. E anche se opportunisti e rischiosi, se l’attuale Governo socialista può permettersi i diversivi, i gesti, le contraddizioni, i cambiamenti di discorso e gli approcci «empatici» al movimento indipendentista, è giusto perché sa che questo è stato sconfitto dalla democrazia.
Se il movimento indipendentista fu sconfitto, non fu solo per fortuna, ma per virtù-democratica. Fu grazie al coraggio civico delle centinaia di migliaia di persone che sono scese in piazza per difendere il nostro progetto comune. Il resto lo hanno raggiunto i nostri rappresentanti politici, lasciando temporaneamente indietro le loro divergenze e interessi di partito, i giudici e i pubblici ministeri, la Polizia e la Guardia Civile, agendo congiuntamente in difesa dello Stato di diritto e delle istituzioni democratiche, così come i nostri diplomatici, che difendevano davanti al mondo la legittimità della posizione della Spagna e la giustizia delle ragioni che assistevano la democrazia spagnola. Dobbiamo anche onorare i media indipendenti, che hanno adempiuto al loro dovere di fornire informazioni plurali e veritiere che hanno smentito gli inganni e le bugie di un separatismo, che non solo contava con l’apparato ufficiale di propaganda della radio e della televisione pubblica in Catalogna e dei mezzi connessi, ma del supporto attivo e dell’interferenza dei media dell’orbita russa e dei suoi operatori nei social network, come Julian Assange.
Questo trionfo della democrazia è anche quello dei nostri partner europei, cui sostegno e solidarietà abbiamo ricevuto al di là di stridenti eccezioni il cui ruolo è soltanto rivelare la generalità del sostegno alla democrazia spagnola al di là dei nostri confini. I governi dei nostri vicini e amici hanno compreso la necessità di chiudere il passaggio alla peggiore forma di nazionalismo che conosciamo: l’irredentista e sciovinista, quello che aspira a convertire la pretesa superiorità morale, sociale o economica di un gruppo in un diritto di escludere e discriminare a quelli che sono diversi e pensano in modo diverso. Questa è stata la miglior mediazione internazionale della quale ci siamo beneficiati: quella di coloro che in modo chiaro e senza ambiguità hanno detto che in nessun caso accetterebbero una secessione unilaterale e illegale effettuata contro la maggioranza degli spagnoli e in violazione aperta della Costituzione. Questo rifiuto delle capitali e delle istituzioni europee fece fallire anche in questo caso il tentativo di sferrare un colpo mortale alla Costituzione del 1978.
L’anno 2017 è stato un anno traumatico per la democrazia spagnola. Per un’intera generazione di spagnoli, che non hanno vissuto il colpo di stato del 81 o lo hanno vissuto a distanza, i drammatici momenti di settembre-ottobre dello scorso anno rafforzeranno il loro senso di appartenenza a questa comunità politica. Come allora Juan Carlos I, adesso il Re Felipe VI ha affrontato e superato il suo momento critico democratico e costituzionale. Il danno causato ha servito la stragrande maggioranza degli spagnoli a riscoprire il valore della convivenza in pace e libertà sotto le stesse norme, in una democrazia dove tutti ci stano e in un’Europa dove 40 anni dopo l’adozione della Costituzione siamo ancora ammirati dal nostro impegno civico per i valori di una società aperta, democratica e plurale. Il movimento indipendentista crede aver risvegliato il nazionalismo spagnolo e che questo lo legittima a negoziare su un piano di parità, ma ciò che ha rafforzato è la nazione politica e il senso di appartenenza ad essa.
José Ignacio Torreblanca è professore di Scienze Politiche presso l’UNED e Direttore dell’Ufficio di Madrid del European Council on Foreign Relations.