In Italiano Voices From Spain

Le cose che abbiamo visto

Originale: “Las cosas que hemos visto”. Manuel Arias. Revista de libros

«The things we’ve seen, Master Shallow! The things we’ve seen!», dice Falstaff al suo compagno di avventure, di fronte al fuoco del camino che illumina malinconicamente i loro visi invecchiati. Cosí comincia Falstaff, il film di Orson Welles che realizza un collage con le opere di Shakespeare, nel quale troviamo questo memorabile personaggio a cui Harold Bloom ha appena dedicato un magnifico libretto –usando come base i suoi materiali per la docenza-. Non é assurdo pensare che il famoso discorso del replicante interpretato da Rutger Hauer alla fine di Blade Runner («Ho visto cose che voi umani non potreste immaginarvi») sia stato ispirato da quelle linee. Disgraziatamente, in Spagna possiamo dire la stessa cosa, solo che in tempo presente: le cose che stiamo vedendo. Non hanno niente a che vedere con la porta di Tannhäuser o la morte di Enrico IV. Non sale nemmeno Fernando Rey! Ma sono, senza dubbio, cose straordinarie che ricorderemo per sempre e sulle quali sempre ritorneremo. Anche solo per cercare spiegazioni: il triennio tragicomico che si compirà il prossimo mese di Novembre –quando saranno passati tre anni dalla “consulta partecipativa” sponsorizzata da Artur Mas- genererà migliaia di studi accademici.

Le cose che avremo visto: niente meno che un’insurrezione nazional-populista nella regione più ricca della Spagna, applaudita dalla sinistra radicale, impulsata dalle élite in nome della democrazia plebiscitaria «]–nonostante non sia mai esistito nulla di simile a una maggioranza indipendentista- e che include episodi così deliranti come il trasporto segreto delle urne, la convocazione di uno sciopero rivoluzionario, la persecuzione contro la Guardia Civil (NdT: Polizia spagnola), la fuga delle principali aziende catalane, una confusa dichiarazione d’indipendenza che nessuno considera tale, la rivelazione di una «tabella di marcia» che fissa nero su bianco la strategia nazionalista di scontro con lo Stato, l’annuncio di una riforma costituzionale, il recupero del genere epistolare tra il Governo nazionale e il Governo catalano e la protesta indignata contro una giudice per aver applicato il Codice Penale a due dirigenti indipendentisti. E tutto questo  non è ancora finito!

Ciononostante, ci sono ragioni che fanno pensare che, in qualche modo, sì sia finito. Per il semplice motivo che –dimostrazioni e vittimismo a parte- il processo non può sopravvivere a due fatti recenti e decisivi. Il primo è, allo stesso tempo, materiale e simbolico: la fuga delle grandi aziende catalane –quelle che «fanno paese»- mette per la prima volta davanti agli occhi di chi non voleva guardare, o guardava senza vedere, che l’indipendenza è un’astrazione indolore dietro la quale si nascondono realtà sgradevoli. Specialmente importante è il cambio della sede de La Caixa e Banco Sabadell, provocata a sua volta dalla fuga di depositi (per timore o per protesta) e l’inquietudine dei fondi internazionali. Che sovranità può essere costruita senza il capitale finanziario? Non sorprende: La Caixa aveva, fino a poco tempo fa, quattro milioni di clienti in Catalogna e dieci in Spagna. La stessa cosa può dirsi a livello micro: dubito che Rockdelux o Dirigido abbiano più lettori in Catalogna che nel resto della Spagna. E la stessa cosa avviene con l’industria editoriale, che in maggioranza ha sede a Barcellona. La Catalogna è Spagna e la Spagna è Catalogna: l’interdipendenza è un dato di fatto e, come ha detto John Major, l’unico paese veramente sovrano nel pianeta è Corea del Nord.

No scartiamo che alcuni indipendentisti preferiscano diventare poveri che vivere sotto il giogo  della democrazia costituzionale. Quello che scartiamo è che riescano a trasformarsi in una maggioranza, per molto rumore che facciano. Affermo che la fuga delle aziende è un fatto materiale, ma anche simbolico: che compagnie rilevanti come Codorniú –creata nel sedicesimo secolo- abbandonino la Catalogna nel momento dorato della sua cosiddetta indipendenza ha anche un forte impatto affettivo.  La spiegazione è semplice: difficilmente si costruirà la futura repubblica senza ciò che rendeva riconoscibile la Catalogna. Per il cittadino comune, indipendentista di ultima ora o incapace fino a ora di farsi le domande più difficili su questa avventura populista, la domanda è ovvia: perché se ne vanno? Naturalmente, la storia nazionalista sarà opportunamente modificata: si ricodificherà ciò che è successo nelle ultime settimane e da lì uscirà una nuova attribuzione di colpe alla Spagna, descritta come la Turchia d’Europa. Una narrazione – la story degli anglosassoni- capace di giustificare altri duecento anni di vittimismo.

L’altro fatto decisivo nel cambiamento di direzione del processo non ha nulla a che vedere con la Spagna. È il presidente Puigdemont (NdT: il presidente del Governo catalano) chi, nella seduta plenaria del Parlamento catalano accuratamente ritrasmessa in TV, si tirò indietro e non dichiarò l’indipendenza, come prometteva da mesi, se non da anni. Ci sono giuristi e opinionisti che, con buone ragioni, credono che sì fece la dichiarazione e che la Catalogna, adesso, è indipendente. Ma ci sono dubbi sul fatto che questa affermazione possa essere sostenuta dal punto di vista giuridico: le leggi che, in teoria, proteggevano Puigdemont sono state sospese dal Tribunale Costituzionale. Lui stesso non le ha rispettate, già che ha evitato la votazione parlamentaria. Se c’è stata dichiarazione d’indipendenza, cosa che Puigdemont potrebbe ancora ratificare, l’ha fatta un autocratico che si è concesso pieni poteri sul territorio che governa come rappresentante dello Stato. Invece, sì possiamo dire che l’indipendenza è stata dichiarata politicamente al margine del Diritto. Come una affermazione di fatto chiamata ad annientare la legalità spagnola per instaurare una nuova realtà sovrana –la dittatura sovrana di Carl Puigdemont-. Ciononostante, sarebbe difficile trovare anche un solo separatista che la veda cosí. O, addirittura, che creda che l’indipendenza sia stata dichiarata per essere poi «sospesa». La richiesta costante di dialogo da parte di Puigdemont suggerisce, invece, che sia stata dichiarata la dipendenza. E questo sarebbe stato reso esplicito nel documento che l’Assessorato all’Economia della Generalitat (NdT: il governo regionale della Catalogna) ha inviato alle delegazioni estere del Governo regionale lo scorso 15 di Ottobre. In quel documento si dice che la dichiarazione d’indipendenza non implica l’indipendenza, perché questa dovrebbe essere «riconosciuta prima dalla Spagna». Hanno potuto, ma non l’hanno fatto: questa è la notizia e non la «dichiarazione sospesa» che leggemmo il giorno dopo sulle prime pagine dei giornali. Si tratta di un’esibizione d’impotenza sovrana che conferma lo spostamento definitivo dell’indipendentismo al terreno del simulacro: da Delacroix a Matrix, passando por Duck Soup.

Insomma, tutto indica che la cupola nazionalista si affacciò sul baratro e si spaventò: giustamente. Ciononostante, spaventandosi, ha deluso i difensori più incalliti della secessione per la via di fatto. Una via impraticabile quando appena il 40% dei catalani difende l’indipendenza. Sicuramente, bisognerà vedere che impatto hanno tenuto questi mesi vertiginosi nei sondaggi d’opinione. Nel 2006, appena l’11% dei catalani si dichiarava a favore dell’indipendenza. Da allora, il nazionalismo tradizionale ha ricevuto impulso da due fenomeni nuovi: l’emergenza populista sorta dopo la Grande Recessione e la digitalizzazione dell’opinione pubblica. Potrebbe succedere che il racconto vittimista, alimentato dai torti più recenti, faccia crescere l’appoggio all’indipendenza. Ma è anche possibile che, per molti cittadini catalani, il mito dell’indipendenza non significhi più quello che significava prima, perché ha preso contatto con la realtà e, sorpresa, ha dimostrato di essere una fonte di conflitto civile, disordine sociale e deterioramento economico. Nel frattempo, dall’altro lato del Canale della Manica, i britannici che credono che il Brexit è una cattiva idea sono diventati la maggioranza (il 47% contro il 42%). Si tratta dell’ennesima dimostrazione del fatto che le società complesse non possono risolvere i loro problemi politici con uno strumento così primitivo come il referendum. Lo scrisse molto tempo fa Giovanni Sartori: un’opinione pubblica disinformata può sostenere solamente una democrazia rappresentativa, ma in nessun caso una democrazia diretta –o una democrazia rappresentativa che ricorra a meccanismi diretti di decisione- che richiede certe conoscenze su quello che si decide. Con le reti sociali abbiamo potuto confermare che il livello di alfabetizzazione democratica dei cittadini è piuttosto discreto. Per questo, riassumendo, le democrazie sono rappresentative.

La contaminazione di una buona parte di queste preferenze merita un capitolo a parte. Il processo ci ha fatto vedere qualcosa che va oltre le notizie false o il funzionamento delle camere di risonanza in cui a malapena interagiamo con persone che non pensano come noi, meno quando lo facciamo con l’obiettivo di screditarle. Si direbbe che si sono formate percezioni così saturate di affettività che finiscono per creare una realtà parallela che, separata dal mondo pubblico comune, impedisce una conversazione ragionevole. In tutto questo, ovviamente, le reti sociali svolgono un ruolo decisivo. Qualche giorno fa leggevamo che parte della strategia di propaganda delle organizzazioni «civili» (le virgolette alludono al loro finanziamento pubblico e al loro vincolo con i partiti nazionalisti) dell’indipendentismo consisteva in penetrare nelle chat di WhatsApp dei cittadini catalani che, per questioni d’età, maneggiano lo smartphone ma non le reti sociali. Grazie a una semplice sottoscrizione, qualsiasi utente del popolare servizio di messaggeria ha ricevuto sul suo telefono dei testi con i quali ci siamo già familiarizzati, per averli visti riprodotti sulla stampa: agitazione nazionalista e diffusione dei dogmi indipendentisti. Questo tipo di meccanismi è ciò che spiega l’insieme di credenze false che servono come argomenti –razionalizzanti- per chi si inclina affettivamente verso l’indipendenza. Ma anche ciò che ha portato a molti cittadini fino al credo indipendentista.

Dal saccheggio fiscale all’annullamento dell’Estatut (NdT: lo Statuto di autonomia della Catalogna, di cui alcuni articoli sono stati dichiarati illegali dal Tribunale Costituzionale), passando per la Guerra di Secessione del 1714, la certezza di poter restare nell’Unione Europa o l’impossibilità che le banche se ne andassero: siamo davanti una serie infinita di bugie presentate come verità e impermeabili a qualsiasi replica. Impermeabili, comunque, fino a che la dissonanza cognitiva non arrivi ad essere insopportabile: se le banche se ne vanno e nessun paese europeo mostra il suo sostegno, la verità finisce per imporsi. In ogni caso, considerando questa incredulità, bisogna interrogarsi su questioni più elementari. Per esempio, quanti cittadini catalani conoscono l’ampio grado di autogoverno del quale gode la Catalogna? Quanti sanno che la Catalogna ha competenze in materia di traffico dal 1997? In altre parole: qual è il grado di sofisticazione delle convinzioni politiche della base sociale dell’indipendentismo? Possiamo forse ignorare il ruolo delle èlite nella diffusione di queste convinzioni?

Queste sono una conseguenza dell’«esposizione selettiva» facilitata da Internet; anche se i nazionalismo esistevano prima di Internet. Sia chiaro, però, che il problema non è tanto l’esistenza di bolle come l’iperconnessione. Anche prima esistevano bolle cognitive, ma il numero di cittadini implicati politicamente era molto inferiore, per non parlare del numero di quelli che erano connessi orizzontalmente fra di loro. Siamo emittenti attivi di opinioni, tutti insieme diamo forma alla sfera pubblica. Aggiungiamo il fatto che, in una società digitalizzata, dove il numero di emittenti si moltiplica esponenzialmente, gli attori politici ricorrono con sempre meno scrupoli all’iperbole per richiamare l’attenzione. E la stessa cosa fanno gli utenti delle reti sociali. Inoltre, la rapida diffusione delle reti ci ha trasformato in consumatori di politica a un livello prima sconosciuto. La politica ha cominciato a formar parte del nostro catalogo di divertimenti e, in un contesto di severa polarizzazione come quello che vive la società catalana, la conflittualità aumenta. E i risultati sono evidenti.

In un’altra occasione ci occuperemo dell’efficace distorsione del linguaggio che sono stati capaci di produrre gli ideologi nazionalisti con notevole efficacia. Oggi, il giorno prima che scada il tempo che il Governo ha dado al presidente catalano, lasciamo il protagonismo allo stupore per le cose che stiamo vedendo.

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