25 maggio 2018
Il professore dell’Universidad de Barcelona ritiene che il concetto «un sol popolo” sia una superstizione e che i membri del clero abbiano avuto una grande responsabilità nell’arrivare all’attuale situazione in Catalogna
Félix Ovejero (Barcellona, 1957) discute con determinazione. La stessa che da anni lo porta a dissentire da chi ritiene si debba trovare un accordo con il nazionalismo. Scrittore, editorialista e professore ordinario di economia, etica e scienze sociali all’Universidad de Barcelona, Ovejero ritiene che la Catalogna viva un “degrado morale”, che abbia sostenuto questioni che attaccano la natura di cittadinanza, e che si dovrebbe affrontare una svolta, per “demolire la finzione indipendentista, moralmente e politicamente”. Ovejero, autore de La trama estéril, La libertad inhóspita, Proceso abierto. El socialismo después del socialismo, o Contra Cromagnon. Nacionalismo, ciudadanía, democracia, ritiene che l’università abbia peccato di codardia per aver accettato la dottrina nazionalista.
–Come professore di filosofia politica, come si interpreta ciò che dice e progetta il neopresidente della Generalitat Quim Torra?
–In Catalogna è stato naturalizzato il nonsenso morale. Quanto detto da Torra rappresenta un ritorno all’accettazione esplicita del programma golpista, nel senso di Kelsen: un potere dello Stato che si sottrae alla Costituzione e la modifica nella sua versione più estrema, al punto da rompere l’unità della decisione politica. È quanto possiamo dedurre dai suoi interventi. Che il programma ritorni ad essere questo, facendo leva sull’impossibile legittimità (per principio e per metodo) del referendum del 1 ottobre, è molto grave. Come ha sostenuto Santos Juliá, si tratta di recuperare la strategia dei pronunciamenti, come quello di Primo de Rivera. D’altra parte, le informazioni che sono comparse sulla sua ideologia (direttamente xenofoba e dispregiativa di oltre la metà della popolazione) risultano chiarificatrici, mostrano il nucleo inevitabile del nazionalismo. E il fatto che queste cose si possono dire con naturalità, senza concessioni alla retorica civica, ci dice molto del degrado morale della nostra società, come gli omaggi a Jordi Pujol, la difesa delle persecuzioni ai bambini da parte di professori e la presenza di assassini su TV3, ricevuti con applausi.
–Uno degli equivoci dall’inizio del processo di sovranità nazionale riguarda la natura dei suoi difensori. È stato sottolineato che fosse un movimento delle classi medie e che fosse vantaggioso per le classi popolari. Quali verità si nascondono dietro queste interpretazioni?
–Si è cercato, ed è ragionevole, di estendere il mercato politico. Per questo è stata fabbricata la retorica che dice che «la Spagna ci deruba». Nulla unifica più dell’invenzione di un nemico esterno e ancora di più in tempi di crisi. Tutto questo è falso ed è stato possibile dimostrarlo, come lo erano le promesse che non saremmo usciti dall’euro, che le banche sarebbero rimaste e che le grandi aziende sarebbero state entusiaste. Per cui verità, nessuna. Ma quando le persone hanno imbarcato la loro biografia è difficile scendere dal treno dei deliri che hanno dato senso alla tua vita. Soprattutto quando dall’altra parte nessuno ricorda l’evidenza, nessuno salvo alcuni eroi sparsi.
–Perché le classi medie appoggiano un processo che può risultare controproducente per i loro interessi?
–Perché il racconto è un racconto controfattuale. Non metti a confronto due realtà, ma una realtà, brutta, che era la crisi, con delle promesse. È il vantaggio dell’amante, per così dire, non c’è modo di dimostrarlo fino a che non hai preso la decisione. E, naturalmente, nessuno si è preso la briga, come dicevo, di insistere davvero sulla posta in gioco: il tracollo del risparmio, i posti di lavoro e altri problemi. Perché il “racconto” comprendeva una clausola aggiuntiva: ogni considerazione critica era descritta come una minaccia, come un’esortazione alla paura. E chi avrebbe dovuto fare presenti queste complicazioni ha accettato il racconto: meglio non spaventare, ecco, meglio nascondere il dramma. Un processo di infantilizzazione, quasi di eccessiva protezione: evitiamo alla gente il dramma della vita.
–Ne La seducción de la frontera, punta il dito verso la responsabilità della sinistra nell’aver lasciato al nazionalismo il ruolo di interprete del racconto e di padrone del campo di gioco. Perché è successo questo, non si è capito o no si è voluto capire?
–Le circostanze sono tante: debolezza ideologica, accettazione del racconto nazionalista, l’aver associato il nazionalismo al progressismo, la composizione delle élite politiche, con una forte presenza di uno pseudomarxismo catalano (gli ex Bandera Roja), anche se bisognerebbe analizzarle a fondo. In ogni caso, sono due le cose importanti. Primo, è stata sostituita la retorica dell’uguaglianza con quella della differenza, ché si promuoveva in nome dell’identità l’innalzamento di frontiere e privilegi (cioè, l’opposto della eredità repubblicana, di comunità di cittadini liberi e uguali che credono nelle stesse leggi che valgono per tutti). E tutto questo è peggiorato perché in Spagna, e quasi dappertutto, è stata la sinistra a dare il via libera morale alle cause. Il risultato è che le idee più reazionarie, quelle che vengono dallo storicismo tedesco, che ha combattuto la rivoluzione francese, sono state fatte passare per progressiste. Allucinante. La sinistra si è opposta all’illuminismo, per dirlo, se permetti, con il titolo che pubblicherò fra qualche mese.
–Lei usa spesso l’espressione “merce avariata”, questo nazionalismo che la sinistra catalana e spagnola hanno «accettato». È stato frutto dell’ingenuità, o dell’interesse a breve termine, o ciò che è successo è che c’è stata una slealtà che non era stata prevista, e, pertanto, c’è maggiore responsabilità da una parte e non dall’altra?
–Sì, è quello di cui ho parlato. Credo anche che le istituzioni abbiano incentivi perversi, che invece di incoraggiare la fraternità tra gli spagnoli, capitalizzano il tracciare differenze, la coltivazione dell’identità: se una barriera linguistica mi garantisce che non verrà nessuno da fuori a fare concorrenza avrò incentivi per erigerla. E gli altri, per convinzione o alla difensiva, faranno la loro parte. Inoltre, la condizione di cardine, di massa critica dei nazionalisti, nel Parlamento spagnolo, obbliga chiunque volesse governare a tariffare, temendo che l’altro (PP o PSOE) possa offrire di più. Intanto i nazionalisti hanno man mano costruito la nazione, con l’istruzione e coi i mezzi di comunicazione. La responsabilità della sinistra, semmai, è maggiore, perché questo copione si scontra frontalmente con i suoi principi. Il diritto all’autodeterminazione, sul serio, lo hanno difeso i migliori apologisti del capitalismo, quelli critici con le attività redistributive dello stato.
–Quanto c’è di verità o di illusione nel concetto di Josep Benet “un solo popolo”, che sarebbe entrato adesso in crisi?
–È una superstizione. Quando studi sul serio la realtà demografica, culturale, sociale, vedi che la Catalogna non è in essenza diversa dal resto della Spagna, che un barcellonese medio ha a che vedere più con un madrileno che con uno di Girona. Basta guardare gli studi dei cognomi, tra l’altro.
–I sondaggi del CEO e gli studi di molti esperti indicano che l’idea della trasversalità si allontana, che la separazione tra comunità per ragioni di lingua e di origini familiari è sempre maggiore, e che si traduce in modo mimetico alle alternative politiche. Era stato vissuto un sogno, era una favola sin dall’inizio o, davvero, si è man mano verificata questa separazione negli ultimi anni?
–Faceva parte del progetto nazionalista: esiste un’identità collettiva, questa identità si sostiene nella lingua, che garantisce una visione del mondo e, poiché siamo diversi, siamo una nazione, una unità di sovranità. Ciascuna di queste premesse risulta concettualmente insostenibile, ma ha ispirato la politica di tutti questi anni. A un certo punto è stato raggiunto il massimo di diffusione di questo progetto e molti ci hanno creduto. E questo è un problema, come lo sarebbe se all’improvviso un milione di persone fuggissero da Barcellona perché credono che esista una malattia contagiosa. Naturalmente, è necessario smentire i dati, le menzogne, ma anche risolvere quest’altro problema. In ogni caso, la prima cosa da fare, moralmente e politicamente, è demolire la finzione. La Catalogna è una società meticcia, oltre le comunità isolate, fondamentalmente rurali che, come in qualunque luogo al mondo, hanno altri modelli di vita. Ma non siamo così strani.
–Lei scrive articoli, partecipa a dibattiti, vive l’ambiente accademico. In che misura crede che la cosiddetta clerecy sia responsabile di ciò che è successo in Catalogna negli ultimi anni?
—Le responsabilità della clerecy sono enormi, per le complicità e per i silenzi. Ci sono sistemi di incentivi perversi: composizione di classe, mobilitazione ben coordinata, penalizzazioni dei dissidenti. E di codardia, molta codardia. Non si può immaginare la quantità di amici che ti fanno i complimenti e ti incoraggiano, ma poi tacciono docilmente e si fanno da parte. Tra l’altro, l’opposto di quanto è successo nel PP dei Paesi Baschi, dove vi è stata una risposta significativa da parte di storici, costituzionalisti, ecc. Qui, dall’altro lato c’erano solo i cani sciolti, storici non professionisti, avvocati, che con poche risorse facevano ciò che avrebbe dovuto fare un’accademia seria.
–Cioè, che ruolo svolgono programmi come Polònia, o la APM, e perché nessuno li ha segnalati a suo tempo?
–Non guardo nessun canale generalista, neanche TVE o La Sexta. Ma, comunque, conosco il panorama. Il ruolo è fondamentale. Ci sono studi: la scelta della lingua, dell’ontologia, della descrizione del mondo. Per questo è stato fatto ed è stato proclamato esplicitamente per erigere l’inesistente nazione. E pagavano bene. E se a questo si aggiunge che c’era l’offerta, perché i giornalisti uscivano dall’università con l’idea di amare la Patria prima della verità, abbiamo detto tutto.